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Recensione di Giacomo Momo Gallina
Le opere di Gerardo Di Salvatore ci appaiono immediate e sceniche ma
il vero significato richiede un'analisi semiologica complessa e
precisa del primordiale e dell'essere.
Le tecniche usate da questo artista semplicemente complesso,
generalmente, sono due: la figura retorica dell'iperbole e il gioco
della maschera calviniana.
Il primo, il più complesso, consiste nell'allontanare il più possibile
dal significato reale dell'opera lo spettatore per poi, come nel
compimento di un cerchio, fargli fare l'ultimo passo e ricondurlo,
quindi, all'inizio, dell'essenza scevra di sovrastrutture e
preconcetti. Un esempio preciso, ricade sulle strutture sferiche e
ovoidali, spesso ricoperte da cornetti rosso sangue, i questo modo ci
allontana con il colore che provoca agitazione e mette a prova il
nostro coraggio, dalle innumerevoli punte dei corni che ci riportano
al dolore degli aghi, dei fili spinati e alla forma dell'uovo così
intrinseca nella definizione d' esistenza da spaventarci. Ma, con un
solo un piccolo audace passo, ci troviamo ad affrontare il colore, a
staccare i cornetti, a trovare un uovo perfetto come la macchina
umana, a romperlo e ritrovarci la vita primordiale di un cuore
palpitante e, infine, ci permette di gongolare nei dubbi della nostra
esistenza, accettandoli.
Nel Gioco delle maschere, l'artista si pone in primo piano, in una
figura statica sempre uguale per non permettere divagazioni inutili alla percezione del duplice messaggio.
Gerardo, si traveste, si maschera di materiali ben studiati come le
piume di pavone o pietre preziose, in questo modo estroflette o,
ancora meglio, esaspera sentimenti umani comuni come il narcisismo,
l'avidità e il dispotico desiderio di potere ed ecco che scatta in
noi, ancora in trappola nell'intento dell'artista, il desiderio di
spogliarlo e spogliarci di quello che proviamo ma non vorremmo per poi
scoprirci nudi, indifesi e, soprattutto, fragili nella nostra
dignitosa umanità.
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